La
prefazione
Alla soglia dell'opera, prima che cominci per davvero, sui gradini,
ci sono poste delle parole. Il lettore dalla realtà di fuori entra
nel mondo del testo. Deve accettare quello che gli verrà offerto,
deve fidarsi, affidarsi a colui che scrive. La lettura che seguirà
sarà anche faticosa. Ne vale la pena?
Anche il trattato filosofico presuppone ciò
che Coleridge chiama “suspension of disbelief”1.
Dobbiamo seguire, parola per parola, le decisioni dell’autore,
sperando che alla fine sarà giustificata la nostra fiducia. Che il
nesso interno sia poi di carattere deduttivo o induttivo, rapsodico o
sistematico, si tratta soltanto di modi diversi per assolvere questo
compito: farci entrare e poi proseguire. Non è una considerazione
psicologica questa: si tratta della logica della promessa.
Leggere
Kant in italiano
La prefazione alla seconda edizione alla Kritik
der reinen Vernunft (1787) comincia
con uno sparo secco e tonante, ma questo nella versione italiana è
silenziato. Nella lingua del
mi e del sì la prima frase
inizia con la parola “se”:
<< Se l'elaborazione delle conoscenze,
che appartengono al dominio della ragione, ...>>2
Fin qui restiamo in dubbio se questo “se”
sia da intendersi come condizionale o come introduzione a una domanda
indiretta. Nel primo caso la costruzione, per quanto inconsueta
all'inizio di un testo, sarebbe abbastanza vicina all'uso quotidiano:
“Se lo vedi, salutamelo”. Ma qui si tratta del secondo caso, come
si evince dal congiuntivo della parola seguente: “segua o pur no”.
In tedesco, inutile dirlo, il “se” della
domanda indiretta è un ob
del tutto univoco.
Ob die
Bearbeitung der Erkenntnisse, die zum Vernunftgeschäfte gehören, …
Anticipando la subordinata, così un filosofo
esce dalla comunicazione quotidiana, fa comprendere sin dall'inizio
che proporrà una cosa complicata, ovvero una questione che per il
momento lascia in sospeso e che nel contempo è drammatica: all'ob
si risponde con sì o no, non c'è via di mezzo. In questa frase al
di fuori della domanda indiretta stessa non c'è nessun contatto con
il mondo esterno, né con un soggetto che chiede. Non c'è né io, né
lettore, e nessun mondo: solo questo interrogativo.
Aggiungiamo che Bearbeitung
(la cosa resta, ma ci sto ancora lavorando sopra) non è
Verarbeitung
(uso una cosa per produrne un'altra) e che Geschäft
non è dominio, bensì “affare”
(e Kant ama le metafore tratte dal settore commerciale), la
traduzione allora potrebbe anche essere:
<< Se, sì o no, la trattazione delle
conoscenze, che appartengono all'ufficio/al lavoro/ alla competenza
della ragione...>>
Un po' troppo spinto, questo esordio? È solo
una possibilità. Non è poi che la traduzione citata sopra sia
sbagliata. Fino alla seconda virgola è corretta. L'errore arriva
dopo:
<< Se l'elaborazione delle conoscenze,
che appartengono al dominio della ragione, segua o pur no la via
sicura di una scienza.>>
“Via” è una
traduzione erronea della parola Gang
che deve essere resa
con “andamento” / ”andatura”3.
La differenza è palese: la via me la trovo davanti, nel mondo
esterno; l'andatura invece è mia e non dipende da altri elementi
esterni. Kant in questa prefazione ripete la parola
Gang sette volte. Difficile pensare
che l'utilizzi a caso. Questa è la prima volta che l'adopera. Ha
impiegato 40 anni per arrivarci.
Andare
Già dal suo primo libro, 1746, Kant si serve
della metafora della via, dell'andare per la giusta strada, sempre in
varianti diverse. Si tratta di un topos antico tra l’altro.
Già per Parmenide l'idea, l'immagine della via sembra di evidente
utilità quando si tratta di descrivere ciò che fa un filosofo.
Chissà perché. Forse soffriva ancora la concorrenza dei culti
misterici che avevano tutti i loro “percorsi”? Potremmo anche
rappresentare ciò che il pensatore fa come un ballo solitario o come
lo stare seduti sotto un melo, aspettando che ci caschi in testa il
frutto maturo della verità, oppure come un grufolare nell'anima.
Invece sempre di vie si parla. In qualche modo, sostengono i
filosofi, si “va”. E così anche Kant.
Se all'inizio Kant parla di un Fußsteig
der philosophischen Betrachtung4,
“cioè il sentiero della contemplazione filosofica” che il
filosofo dovrebbe seguire senza curarsi delle richieste della
società, questa via sembra ancora esterna al pensatore. Una cosa che
c'è, occorre trovare e seguire la sua strada che lo distanzia dal
mondo sociale e dall'Heerstraße,
la strada che percorrono gli eserciti, quella della massa uniformata.
Ich habe mir die Bahn
schon vorgezeichnet, die ich halten will. Ich werde meinen Lauf
antreten und nichts soll mich hindern, ihn fortzusetzen.5
<< Ho già tratteggiato il mio percorso.
Comincerò la mia corsa e nulla mi impedirà di proseguire in essa.>>
Sembra proprio che il coraggio non gli manchi.
Non si fa intimorire neanche dalle nebbie e dai mostri, come spiega
nella Allgemeinen
Naturgeschichte
und
Theorie
des
Himmels
del 1755:
La strada è stata rischiosa.
Ein
falscher
Grundsatz,
oder
ein
paar
unüberlegte
Verbindungssätze
leiten
den
Menschen
von
dem
Fußsteige
der
Wahrheit
durch
unmerkliche
Abwege
bis
in
den
Abgrund.7
<< Un principio sbagliato o qualche frase di collegamento
sconsiderata portano l'uomo dal sentiero della verità attraverso vie
sbagliate nell'abisso.>>
Negli anni a seguire, Kant si renderà conto di
stare già sempre su un abisso. Nel Beweisgrund
del 1763
parla del bodenlosen
Abgrund
der
Metaphysik,
“l'abisso senza fondo della Metafisica”.
Ein
finsterer
Ozean
ohne
Ufer
und
ohne
Leuchttürme8,
“un oceano buio senza riva e senza
fari”. La filosofia diventa la Kunst
zu
schiffen,
l'arte di navigare.
E il pensatore non arriva più in terre designate, questo perché non
è più definito il punto di arrivo, e l’unico
aspetto che può controllare è soltanto il percorso, la via.
Insomma, esiste la strada giusta, ma non è marcata dal di fuori.
Dobbiamo averla in noi.
Arrivato a questo punto, il passo verso la prefazione alla seconda
edizione della Kritik der reinen Vernunft sembra breve.
Tuttavia, nella prima edizione il filosofo (1781) pare aver
dimenticato tutti gli sviluppi dell'immagine dell'andare avanti.
<< Ora dopo che tutte le vie sono state provate invano(...) >>
Qui “via” non è usata come fosse un’immagine.
È semplicemente un sinonimo di metodo, come apparirà anche dopo:
<< Questa via, l'unica rimasta, ora l'ho presa io. >>
Soltanto nella seconda prefazione Kant riprende una delle sue
metafore preferite. Cerca il sicheren Gang. Tra l'altro trae
in inganno questa volta: la via, in realtà, finirebbe con lui. Ma
questa è un'altra storia.
La metafora del percorso segue uno sviluppo in
Kant. Alla fine, quindi, quando sceglie la parola Gang
(e ci sono dei buoni motivi per farlo) s'intende l'andamento o
l'andatura, non un sentiero.
L'uomo di Königsberg sceglieva le parole con
attenzione, tanto più perché si trovava in un'epoca di rapida
evoluzione della sua lingua. Nel 1720 era uscita la “Metafisica
tedesca” di Wolff, la prima grande opera di filosofia accademica in
lingua tedesca, corredata di un glossario che presentava i termini in
parte coniati dall'autore tradotti in latino corrente. Sessant'anni
dopo è stata pubblicata la “Critica della ragion pura” in una
lingua che ha preso forma anche grazie al lavoro di Kant. Filosofia
tedesca e lingua tedesca sono cresciute insieme.
2Critica
della ragion pura, trad. da Vittorio Mathieu, Roma e Bari (Laterza)
2005
3Il
dizionario proporrebbe anche “corridoio”, ma possiamo
tranquillamente escludere questa possibilità.
4
GLK, AA01: 13. 2-5
9
KrV A X