Montag, 10. Juni 2013

La “via sicura” di Immanuel Kant




La prefazione
Alla soglia dell'opera, prima che cominci per davvero, sui gradini, ci sono poste delle parole. Il lettore dalla realtà di fuori entra nel mondo del testo. Deve accettare quello che gli verrà offerto, deve fidarsi, affidarsi a colui che scrive. La lettura che seguirà sarà anche faticosa. Ne vale la pena?

Anche il trattato filosofico presuppone ciò che Coleridge chiama “suspension of disbelief”1. Dobbiamo seguire, parola per parola, le decisioni dellautore, sperando che alla fine sarà giustificata la nostra fiducia. Che il nesso interno sia poi di carattere deduttivo o induttivo, rapsodico o sistematico, si tratta soltanto di modi diversi per assolvere questo compito: farci entrare e poi proseguire. Non è una considerazione psicologica questa: si tratta della logica della promessa.


Leggere Kant in italiano
La prefazione alla seconda edizione alla Kritik der reinen Vernunft (1787) comincia con uno sparo secco e tonante, ma questo nella versione italiana è silenziato. Nella lingua del mi e del sì la prima frase inizia con la parola “se”:

<< Se l'elaborazione delle conoscenze, che appartengono al dominio della ragione, ...>>2

Fin qui restiamo in dubbio se questo “se” sia da intendersi come condizionale o come introduzione a una domanda indiretta. Nel primo caso la costruzione, per quanto inconsueta all'inizio di un testo, sarebbe abbastanza vicina all'uso quotidiano: “Se lo vedi, salutamelo”. Ma qui si tratta del secondo caso, come si evince dal congiuntivo della parola seguente: “segua o pur no”.

In tedesco, inutile dirlo, il “se” della domanda indiretta è un ob del tutto univoco.

Ob die Bearbeitung der Erkenntnisse, die zum Vernunftgeschäfte gehören, …

Anticipando la subordinata, così un filosofo esce dalla comunicazione quotidiana, fa comprendere sin dall'inizio che proporrà una cosa complicata, ovvero una questione che per il momento lascia in sospeso e che nel contempo è drammatica: all'ob si risponde con sì o no, non c'è via di mezzo. In questa frase al di fuori della domanda indiretta stessa non c'è nessun contatto con il mondo esterno, né con un soggetto che chiede. Non c'è né io, né lettore, e nessun mondo: solo questo interrogativo.

Aggiungiamo che Bearbeitung (la cosa resta, ma ci sto ancora lavorando sopra) non è Verarbeitung (uso una cosa per produrne un'altra) e che Geschäft non è dominio, bensì “affare” (e Kant ama le metafore tratte dal settore commerciale), la traduzione allora potrebbe anche essere:

<< Se, sì o no, la trattazione delle conoscenze, che appartengono all'ufficio/al lavoro/ alla competenza della ragione...>>

Un po' troppo spinto, questo esordio? È solo una possibilità. Non è poi che la traduzione citata sopra sia sbagliata. Fino alla seconda virgola è corretta. L'errore arriva dopo:

<< Se l'elaborazione delle conoscenze, che appartengono al dominio della ragione, segua o pur no la via sicura di una scienza.>>

Via” è una traduzione erronea della parola Gang che deve essere resa con “andamento” / ”andatura”3. La differenza è palese: la via me la trovo davanti, nel mondo esterno; l'andatura invece è mia e non dipende da altri elementi esterni. Kant in questa prefazione ripete la parola Gang sette volte. Difficile pensare che l'utilizzi a caso. Questa è la prima volta che l'adopera. Ha impiegato 40 anni per arrivarci.


Andare
Già dal suo primo libro, 1746, Kant si serve della metafora della via, dell'andare per la giusta strada, sempre in varianti diverse. Si tratta di un topos antico tra laltro. Già per Parmenide l'idea, l'immagine della via sembra di evidente utilità quando si tratta di descrivere ciò che fa un filosofo. Chissà perché. Forse soffriva ancora la concorrenza dei culti misterici che avevano tutti i loro “percorsi”? Potremmo anche rappresentare ciò che il pensatore fa come un ballo solitario o come lo stare seduti sotto un melo, aspettando che ci caschi in testa il frutto maturo della verità, oppure come un grufolare nell'anima. Invece sempre di vie si parla. In qualche modo, sostengono i filosofi, si “va”. E così anche Kant.

Se all'inizio Kant parla di un Fußsteig der philosophischen Betrachtung4, “cioè il sentiero della contemplazione filosofica” che il filosofo dovrebbe seguire senza curarsi delle richieste della società, questa via sembra ancora esterna al pensatore. Una cosa che c'è, occorre trovare e seguire la sua strada che lo distanzia dal mondo sociale e dall'Heerstraße, la strada che percorrono gli eserciti, quella della massa uniformata.

Ich habe mir die Bahn schon vorgezeichnet, die ich halten will. Ich werde meinen Lauf antreten und nichts soll mich hindern, ihn fortzusetzen.5

<< Ho già tratteggiato il mio percorso. Comincerò la mia corsa e nulla mi impedirà di proseguire in essa.>>
Sembra proprio che il coraggio non gli manchi. Non si fa intimorire neanche dalle nebbie e dai mostri, come spiega nella Allgemeinen Naturgeschichte und Theorie des Himmels del 1755:

Ich habe (…) eine eine gefährliche Reise gewagt, und erblicke schon die Vorgebürge neuer Länder.6

La strada è stata rischiosa.

Ein falscher Grundsatz, oder ein paar unüberlegte Verbindungssätze leiten den Menschen von dem Fußsteige der Wahrheit durch unmerkliche Abwege bis in den Abgrund.7

<< Un principio sbagliato o qualche frase di collegamento sconsiderata portano l'uomo dal sentiero della verità attraverso vie sbagliate nell'abisso.>>

Negli anni a seguire, Kant si renderà conto di stare già sempre su un abisso. Nel Beweisgrund del 1763 parla del bodenlosen Abgrund der Metaphysik, “l'abisso senza fondo della Metafisica”. Ein finsterer Ozean ohne Ufer und ohne Leuchttürme8, “un oceano buio senza riva e senza fari”. La filosofia diventa la Kunst zu schiffen, l'arte di navigare.

E il pensatore non arriva più in terre designate, questo perché non è più definito il punto di arrivo, e lunico aspetto che può controllare è soltanto il percorso, la via. Insomma, esiste la strada giusta, ma non è marcata dal di fuori. Dobbiamo averla in noi.

Arrivato a questo punto, il passo verso la prefazione alla seconda edizione della Kritik der reinen Vernunft sembra breve. Tuttavia, nella prima edizione il filosofo (1781) pare aver dimenticato tutti gli sviluppi dell'immagine dell'andare avanti.

Jetzt, nachdem alle Wege (...) vergeblich versucht sind (..) .9
<< Ora dopo che tutte le vie sono state provate invano(...) >>

Qui “via” non è usata come fosse unimmagine. È semplicemente un sinonimo di metodo, come apparirà anche dopo:

Diesen Weg, den einzigen, der übrig gelassen war, bin ich nun eingeschlagen10.
<< Questa via, l'unica rimasta, ora l'ho presa io. >>

Soltanto nella seconda prefazione Kant riprende una delle sue metafore preferite. Cerca il sicheren Gang. Tra l'altro trae in inganno questa volta: la via, in realtà, finirebbe con lui. Ma questa è un'altra storia.

La metafora del percorso segue uno sviluppo in Kant. Alla fine, quindi, quando sceglie la parola Gang (e ci sono dei buoni motivi per farlo) s'intende l'andamento o l'andatura, non un sentiero.

L'uomo di Königsberg sceglieva le parole con attenzione, tanto più perché si trovava in un'epoca di rapida evoluzione della sua lingua. Nel 1720 era uscita la “Metafisica tedesca” di Wolff, la prima grande opera di filosofia accademica in lingua tedesca, corredata di un glossario che presentava i termini in parte coniati dall'autore tradotti in latino corrente. Sessant'anni dopo è stata pubblicata la “Critica della ragion pura” in una lingua che ha preso forma anche grazie al lavoro di Kant. Filosofia tedesca e lingua tedesca sono cresciute insieme. 
 
1Coleridge, Samuel Taylor: The Collected Works, Princeton University Press. 1983, 236
2Critica della ragion pura, trad. da Vittorio Mathieu, Roma e Bari (Laterza) 2005
3Il dizionario proporrebbe anche “corridoio”, ma possiamo tranquillamente escludere questa possibilità.
4 GLK, AA01: 13. 2-5
5 GLK, AA01: 10.7-11
6 NTH, AA01: 221.18-222.4

7 NTH, AA01: 227.10-12; vgl. GLK AA01: 13.4

8 BDG AA02 65f.
9 KrV A X
10 KrV AXII

Sonntag, 5. Mai 2013

Hölderlin e il cioè


Della grande triade è lui il più grande. Il suo amico Hegel è un maestro del marketing: all'età di 37 anni comincia a ripetersi e riesce così a risultare comprensibile anche per teste dallo spessore di un Kuno Fischer. Schelling, invece, sempre elegante, sempre brillante, sempre in divenire… e mai con un allievo. Sarebbero da prendere i due pensatori come modelli di esistenza filosofica? Sclerare presto e aver successo, oppure infischiarsene e continuare a fare e disfare ignorato dai più?
Resta il terzo, quello di Hölderlin: stare al di sopra delle facoltà umane e uscire di senno. Come dire? Non fa per tutti.

Hölderlin è poeta e filosofo e non credo fosse necessario ritrovare (nel 1961) alcuni frammenti giovanili per rendersi conto di questa duplice natura dello scrittore. Se n'è accorto Heidegger.

Una delle ultime poesie scritte prima di essere portato in manicomio, Mnemosyne, comincia con il verso
Reif sind, in Feuer getaucht, gekochet / Die Frücht
Maturi sono, immersi nel fuoco, cotti /  I frutti.

Un filosofo a sentir parlare di fuoco, in cui qualcosa si immerge, subito si ricorderà degli stoici. Un attento lettore di poesie noterà il peso del in Feuer getaucht con il duplice dittongo (uno anteriore ed uno posteriore) e la lunghezza di questa parte centrale del primo verso. Un traduttore italiano non è né l'uno né l'altro e rende il tutto con: “Maturi sono i frutti / tuffati nel fuoco, cotti (...)”1. Questa, come ci spiega la quarta di copertina, è una “vera versione poetica” che ha in comune con l'originale soltanto il significato delle parole e neanche questo sempre. L'en passant di “tuffati” non corrisponde alla cerimoniosità di getaucht. E se l'autore non traduce in modo plausibile le parti chiare e semplici, che cosa aspettarsi laddove affronta dei versi oscuri?

Nämlich unrecht, / Wie Rosse, gehn die gefangenen / Element und alten / Gesetze der Erde
Infatti/cioè in modo ingiusto / come i cavalli, vanno i catturati / elementi e le antiche /
leggi della terra.

Difficili questi versi, certo. Gefangene Elemente riprende un topos stoico. Il legame tra gli elementi è destinato a sciogliersi. Sarà questo uno degli argomenti della poesia che infatti rappresenta un processo drammatico. Il traduttore italiano scrive: “(.. i sentieri.) Scartano / come cavalli gli elementi prigionieri, / le vecchie leggi della terra”. In questo pasticcio mi limito a far notare una cosa: il nämlich è sparito! È l'unica parola dei versi citati che non viene proprio tradotta.

Tale destino si abbatte sulla povera parola quasi tutte le volte in cui appare, cosa che avviene abbastanza di frequente nella poesia tarda di Hölderlin. Una volta è tradotta come “veramente”, per altre tre volte con “davvero”.

Proprio strambo è poi il titolo: Sonst nämlich Vater Zeus... e il traduttore scrive questo: “Davvero un tempo Zeus padre ...”. Perché abbia scelto “davvero” non è chiaro. Nämlich in italiano il Pons online lo traduce come: “cioè, vale a dire, poiché, infatti”. Allora, dove sta il problema? Traduciamo con “Cioè una volta, padre Zeus ...” – ma questo non è possibile, perché la lingua d'arrivo è l'italiano, nel reparto poesie, dove una cosa come “cioè” è sconosciuta. Cioè, per un oscuro motivo, non bisogna scrivere come parla una tredicenne sull'autobus. Ovvero noi ci stiamo movendo in un linguaggio settoriale e il motivo per cui non riusciamo a tradurre questo nämlich è lo stesso per cui Der Wanderer und sein Schatten in italiano non è “Il camminatore”, bensì “Il viandante e la sua ombra”.

Ma che cosa perderemmo se semplicemente ignorassimo il nämlich? Per giudicarne l'importanza, più indicativo del significato è vedere che cosa la parola fa. È esplicativa, si dice. Qui ad esempio "cioè" sarebbe da tradurre con nämlich: “Siamo in tre, cioè me, Luca e Tom”. Raramente anche “infatti”: “Mi hanno bocciato, infatti avevo dei pessimi voti.” Il seguente esempio è di Hegel: Sie ziehen auf ihren Boden eine Menge Material, nämlich das schon Bekannte und Geordnete, herein,: “Tirano dentro il loro territorio parecchio materiale, cioè quello già conosciuto e ordinato”. Qual è la funzione del “cioè”2 qui? Prima l'autore nomina una realtà e poi, dopo la congiunzione, ne presenta gli elementi costitutivi. Ciò che prima sapeva solo lui e che teneva ancora nascosto, viene svelato. Ora anche a noi è dato sapere. È questa la funzione del nämlich: annuncia che l'autore sta per rendere in parole ciò che il lettore ancora ignora. Il nämlich sancisce un dislivello tra colui che legge e colui che scrive. Hölderlin utilizza questa parola anche in due titoli di poesie, ovvero, partendo dal nulla; non ha paura neanche di Zeus, al quale si rivolge con qualcosa come “Cioè (io lo so e te lo dico io, perchè fino adesso tu l'ignoravi) una volta, padre Zeus ..”.

Colui che scrive quindi è uno che sa. Dal 1801 Hölderin utilizza frequentemente il nämlich. Il poeta filosofo? Sì, ma non è all'interno delle sue poesie che sta a ragionare. A queste, sebbene siano filosofiche per le immagini e il movimento, è “impossibile rispondere”, come scrive Kassner a proposito dell'Essay. Il filosofo poeta non si espone a una discorsività che potrebbe essere logorante. È il poeta vate. Con nämlich Hölderlin ha trovato il modo per esprimere questa sua pretesa. Cioè, una parolina del tedesco quotidiano e colloquiale.

1Friedrich Hölderlin: Le liriche, a cura di Enzo Madruzzato, Milano (Adelphi) 1977, p. 694
2 anche “ovvero” sarebbe possibile, ma è leggermente diverso

Montag, 22. April 2013

Il tedesco di Heidegger – Was heißt Denken? (3)



Eigentlich. Le traduzioni possibili di questo aggettivo o avverbio – due classi di parole non ben distinte nel tedesco di oggi (Schopenhauer ancora insisteva sulla distinzione) – variano da “autentico”/ “autenticamente” a “vero” e “verace” da “propriamente” a niente – non sempre si traduce eigentlich quando è utilizzato come avverbio modale che serve soltanto a dare un certo tono all'enunciato, cosa a volte difficile da rendere in italiano, almeno quando si vogliono evitare aggiunte come: 'sai, ti chiedo questa cosa che avrei dovuto chiederti prima', ad esempio in Wie heißt du eigentlich?

Adorno ne parla nel suo esilarante saggio Jargon der Eigentlichkeit. Negli anni venti in Germania tutti cercavano di essere eigentlich, nessuno sembrava esserne immune. Anche negli scritti del giovane Benjamin si trova questa parola. Il berlinese aveva fatto parte del movimento giovanile (Jugendbewegung), ovvero di quella parte della gioventù cittadina che camminando e cantando attraversavano i boschi tedeschi. Hinaus ins Freie! (“Fuori all'aria aperta!” ma letteralmente nella lingua germanica suona: “fuori nel libero!”). Già il grande Wotan, la nostra somma divinità, in evidente contrasto con il suo compagno mediterraneo che faceva vita più comoda, camminava, armato di bastone, i lunghi capelli al vento. Non dissimilmente, i giovani jugendbewegt andavano alla ricerca della natura e di forme di convivenza – appunto-- eigentlich, autentiche.

Quando Heidegger scrive Halten heißt eigentlich hüten, auf dem Weideland weiden lassen indica dunque un significato autentico della parola 'halten'. Nella traduzione qui citata si preferisce un avverbio diverso: “'Tenere' significa propriamente 'custodire', portare al pascolo sulla terra prativa”. È comprensibile il desiderio del traduttore di evitare una parola che un po' ricorderebbe un fumatino del parco: “Cioè, roba autentica!” Tuttavia, anche in tedesco sull'eigentlich grava la provenienza da ambienti più o meno alternativi, e questo proprio ai tempi di Heidegger. Resta poi la palese poeticità prodotta dalla ripetizione di “weide”: auf dem Weideland weiden lassen. È vero che in tedesco non vige una norma contra la ripetizone delle parole come in italiano. Per quello un testo tedesco riesce a sembrare perfettamente analitico come l'inizio del Was ist Aufklärung? di Kant. Nei testi in lingua italiana invece a volte con le parole anche i concetti sembrano cambiare fino a scivolare via del tutto. Ma una seguenza “wei-de-la wei-de-la” è notata anche da un orecchio tedesco. È poetico Heidegger. Cerca di dire le cose con una variazione minima delle parole, produce allitterazioni e assonanze. È un po' come se intendesse dire: “è qui, è qui il segreto, nel linguaggio.” Ma dove? Nell'Eigentlichen!

Halten heißt eigentlich hüten: tenere autenticamente significa custodire. Tale affermazione potrebbe sembrare sorprendente a un madrelingua tedesco di oggi che non ha davanti agli occhi i pascoli dello Schwarzwald, ma ha ragione Heidegger. Nelle lingue germaniche hüten era il primo significato di halten. Il dizionario dei Grimm in effetti dà „custodire“ come traduzione latina1. Questo verbo tuttavia ha dei parenti molto più antichi, ad esempio la parola per „tenere imprigionati“ in sanscrito. Volendo, il simpatico collegamento tra “tenere” e “custodire” potrebbe quindi trasformarsi nel legame tra “tenere” e “prigione”, oppure anche, volendo restare nella cerchia delle lingue germaniche, con “preservare” o “festeggiare”. Heidegger a quanto pare non ha dubbi quali delle tante strade etimologiche seguire e dove fermare la ricerca. Infatti non dice “originariamente” che ci riporterebbe a un fantasma come il protoindoeuropeo, ma eigentlich. Il nesso che collega due parole della sua lingua lo conosce e l'identifica lui. Ciò spiega che si possa prendere la libertà di allontanarsi anche dall'uso comune.

Unsere Sprache nennt z.B. das, was zum Wesen des Freundes gehört, das Freundliche. In italiano sembra plausibile: “La nostra lingua chiama, ad esempio, ciò che appartiene all'essenza dell'amico, das Freundliche, ciò che è amichevole.” Ma in tedesco freundlich non significa amichevole, bensì cortese; un freundlicher Verkäufer non è un che ci butta le braccia al collo, ma uno che sorride mentre cerca di venderci qualcosa, ovvero uno che ci sembra amico senza esserlo. Pare che alla nostra lingua poco importi dell'essenza: si attiene alla sembianza. Heidegger ignora l'uso comune. Parla del Wesen. Basandosi poi su questa mossa azzardata, propone un'analogia. Dementsprechend nennen wir jetzt das, was in sich das zu-Bedenkende ist: das Bedenkliche. “Analogamente chiameremo ora ciò che in sé è da considerare: das Bedenkliche, il considerevole.” Un movimento definitorio, giustamente reso con il futuro in italiano, che segue le leggi della formazione delle parole in tedesco. Bene, ma bedenklich in tedesco esiste già. Bedenklich chiamiamo non un pensiero, bensì un comportamento rischioso o una tendenza problematica, che si tratti di certe usanze sessuali, di abuso di droghe o dell'inflazione. E allora Heidegger creerebbe una lingua artificiale? No, perché poi ci gioca con il significato originario della parola bedenklich: Was ist das Bedenklichste? Wie zeigt es sich in dieser bedenklichen Zeit? In traduzione, il gioco si guasta: “Che cos'è il più considerevole? Come si mostra nella nostra epoca preoccupante (bedenkliche)?” Il ragionamento di Heidegger inciampa quando si passa dal tedesco all'italiano. Come interpretare questo effetto? L'uomo dello Schwarzwald utilizza forse dei giochetti linguistici senza importanza per adornare il suo discorso e basterebbe eliminarli? Da escludere. Quando presenta la sua prima tesi essenziale è ovvio che il significato originario della parola bedenklich è portante. Das Bedenklichste in unserer bedenklichen Zeit ist, dass wir noch nicht denken. Nella traduzione la frase sembra artefatta, priva di evidenza: “Il più considerevole nella nostra epoca preoccupante è che noi ancora non pensiamo.” Ma l'evidenza in lingua tedesca risulterebbe dunque dalla semplice ripetizione di quel denk che corrisponde all'imperativo del verbo denken? Denk, denk, denk! O dalla derivazione del bedenklich che sarebbe quindi da intendersi come rivelazione del senso originario, o meglio: del legame sotteraneo che dà Eigentlichkeit al linguaggio, costituendo un'unità, non visibile nel quotidiano, tra “problematico”, “preoccupante” e “da pensare”? Il tedesco di Heidegger sarebbe come innervato di qualcosa che classicamente potremmo chiamare essenza. Tali legami misteriosi tra pezzi di parole, suffissi, prefissi, paradigmi non potrebbero essere portati in un'altra lingua. Dovrebbero essere ri-trovati, re-inventati in essa. Auguri.

1http://woerterbuchnetz.de/DWB/?sigle=DWB&mode=Vernetzung&lemid=GH01602

Sonntag, 14. April 2013

Un Hegel un po' nascosto – “Was heißt Denken?” (2)

Facendo parole creiamo dei mondi. Come il romanziere con poche frasi dal nulla fa apparire paesaggi, edifici e personaggi, il filosofo popola l'universo di concetti. Più precisamente, forse non arriverà al concetto, ma difficilmente può evitare di produrre, gettare nel mondo delle entità.

Il titolo del trattato di Heidegger è costituito da una domanda: Was heißt Denken? Come domanda sensata presuppone che le cose di cui parla esistano. “ll pensare”? Chiaro, pensiamo da sempre, almeno così ci pare. Ma “Denken” con la maiuscola è un sostantivo: “nome comune di cosa”. Un oggetto da studiare, das Denken. E non è tutto: was heißt das? si chiede l'autore. Ovvero oltre al pensare ci sarebbe anche un significato di questo? Saremmo già a due entità. Heidegger ce ne vuole parlare. Desidera riflettere sul, intende pensare il pensare. Un pensare-attività che fa parole avrebbe come oggetto un pensare-cosa senza parole e senza contenuto, almeno all'inizio. “Guardiamo questo” sembra dire Heidegger, “che cos'è”? Facile immaginarsi il beato analitico Ernst Tugendhat che borbotta: “Das Denken? Lo so io che cos'è! È un verbo sostantivato!” Oppure Hegel che rifiuterebbe trattare concetti “astratti” e urlerebbe: “Stai parlando del vuoto!”

In realtà Heidegger ha presente questo tipo di critica. Da Sein und Zeit ne è passato di tempo e adesso ha studiato Hegel. Anch'egli rifiuta ciò che il vecchio chiamava Reflexionsphilosophie. Per quello si chiede all'inizio del terzo capitolo: “Quando cerchiamo di imparare che cosa significhi pensare non finiamo per perderci nella riflessione che pensa intorno al pensiero?” Chissà perché il traduttore ha reso “riflettere sul”/denken über di Heidegger con “pensare intorno”. In realta' non si puo' parlare qui di un “pensare intorno” con il rischio forse di "smarrirsi", bensi' di un “infinito inscatolarsi dell'infinito senza freno”, che puo' accadere se non si fa attenzione quando si "pensa il pensare".

Heidegger cita Hegel senza nominarlo. L'uomo dello Schwarzwald utilizza qui due parole di origine straniera – cosa che di regola evita: normalmente o inserisce la parola greca o latina (“ratio”) o preferisce quella di radice germanica. I due termini in questione li prende da Hegel. Si tratta di Reflexion e di Räsonieren.

In italiano non si fa neanche caso alla parola “riflessione”, nella frase tedesca invece verlieren wir uns dann nicht in die Reflexion, die über das Denken denkt? il termine Reflexion salta all'occhio – è una cosa estranea in questo testo. Inoltre Heidegger utilizza l'articolo die che qui ha valore dimostrativo, acquisisce il suo significato con la subordinata relativa seguente: “non ci perdiamo in quella riflessione che pensa il pensare/ riflette sul pensare”. Questo è l'argomento di Glauben und Wissen oder die Reflexionsphilosophie der Subjektivität e della Differenzschrift del giovane Hegel che intende Reflexionsphilosophie come rimprovero. Ciò che dovrebbe salvare il lettore da questo vicolo morto secondo Heidegger sarebbe il sich davon frei halten / “tenersi liberi dal” auf einem Räsonieren über die Ratio zu beharren/ “insistere su un ragionare sulla ratio”; è da escludere invece la traduzione proposta da Ugazio/Vattimo: mantenersi “libero dal fermarsi su ogni ragionamento intorno alla ratio.” La parola “ogni” non si trova nel testo tedesco, e poi... Heidegger parla di Räsonieren – parola di origine francese! A differenza di Reflexion, Räsonieren è un termine completamente fuori uso nel Novecento. Già cent'anni prima Heinrich Heine l'adoperava a scopo ironico: al fittizio tedeschissimo governo della città Krähwinkel faceva usare termini francesi per rendere pubbliche elegantemente alcune regole del rude governo cittadino: Wer auf den Sraßen räsoniert, wird unverzüglich füsiliert “Chi ragiona per strada viene immediatamente fucilato”. Ancora prima, Hegel abbinava Räsonieren und Schwatzen (all'incirca: “ragionare a vuoto e chiacchierare”), räsonieren per lui è è parola di accezione soltanto negativa. Per Kant non era stato ancora così, comunque non va oltre una leggera ironia, forse perché con räsonniert so viel ihr wollt, aber gehocht! citava Federico II che notamente parlava più e meglio il francese del tedesco. Se Heidegger qui chiede di astenersi dal restare fermi su “ragionamento” e parla del Räsonieren, intende cosa deplorevole e desidera farlo capire utilizzando la parola di un altro che si chiama Hegel.

In Was heißt Denken? si trova un'altra ripresa del filosofo di Tübingen. La critica che Heidegger muove nel primo capitolo contro l'interessarsi di filosofia che sarebbe in realtà indifferente nei confronti dell'oggetto dell'interessamento, è una nota hegliana. Tuttavia, nella traduzione italiana si tende a perdere le altre chiarissime (e volute) tracce di un pensare anteriore. Queste stanno nelle scelte delle parole.

Montag, 8. April 2013

Martin Heidegger: Was heißt Denken?



(1) Il celebre saggio inizia con una frase piuttosto strana:
In das, was Denken heißt, gelangen wir, wenn wir selber denken.
Nella traduzione italiana invece non si vede nulla di particolare.
“Arriviamo a capire che cosa significa pensare quando noi stessi pensiamo.”1
Comprensibilmente il traduttore ha cercato di non far inciampare il lettore nella prima frase. Tradotta alla lettera, si leggerebbe:
“In ciò che si chiama pensare giungiamo se/quando noi stessi pensiamo.”
Tralasciando l'ambiguità del wenn (”se”/”quando”) – di per sé non priva d'importanza, potrebbe essere simile al “se solo pensassimo” di kantiana memoria, ma una tale nota liberatoria è estranea a un pensatore del XX secolo –, resta la perplessità di fronte al verbo gelangen / ”giungere”. Messo così, sembra si parli di una zona remota, magari recintata, quella del Denken .. un pensare vero, si aggiungerebbe, perché poi: stiamo già pensando, ma qualche cosa manca. Tuttavia il Denken non è una zona, oppure sì? – Pensare, vero o inautentico che sia, in ogni caso è un'attività.

Il verbo gelangen è piuttosto ricercato2. Qui probabilmente Heidegger desidera rendere l'idea che sia difficoltosa la via, forse vuole evitare anche la vicinanza all'espressione ins Denken kommen che significa: “cominciare a pensare” – e in questa accezione dissolverebbe la frase.
Resta il fatto che non si parla di “capire”. Heidegger non promette nulla del genere. Invece il traduttore glielo fa fare. Sa che le prime frasi di un testo devono portare il lettore ad andare avanti, e la promessa “capiremo” svolge tale funzione. Qual è invece la promessa di Heidegger stesso? Giungeremo in ciò che si chiama pensare. Penseremo per davvero.

(2) La frase seguente pone pochi problemi:
Damit ein solcher Versuch glückt, müssen wir bereit sein, das Denken zu lernen.
“Perché un tale tentativo riesca, dobbiamo essere preparati a imparare a pensare.”
Sarebbe impresa ardua rendere il verbo “glücken” in italiano; si potrebbe provare con “abbia un esito felice”. Perché glücken è un derivato di Glück: “felicità”/ “fortuna”, mentre il semplice “riuscire” sarebbe “gelingen”. Seconda nota: bereit sein è semplicemente “essere pronti” – e per una malefica tendenza dei traduttori in italiano un'espressione così bassa non si vedrà mai inserita in un testo di filosofia. Il risultato è che sembra trattarsi di esercizi scolastici. “Siete preparati?” Non è questo il senso. Heidegger parla soltanto di una disposizione. “Dobbiamo essere disposti”, ecco.



(3) “Non appena ci impegnamo in questo imparare, abbiamo già anche confessato che non siamo capaci di pensare.”
Sobald wir uns auf dieses Denken einlassen, haben wir auch schon zugestanden, dass wir das Denken noch nicht vermögen.
Furfante. Fa tutto lui. Noi, ovvero noi che stiamo ancora al di fuori dal testo, non siamo il suo soggetto, non abbiamo ammesso (zugestanden) niente. L'autore sta solo esplicitando le implicazioni della sua prima frase.

Con la scelta dell'“impegnarsi” forse siamo di nuovo un po' troppo vicini ai rimproveri di un professore al liceo. Sich einlassen auf significa spesso “impegolarsi”, in generale “cominciare un'attivittà accettandone le regole”; sich auf Kompromisse einlassen “scendere a compromessi”.

(4) - (6) Segue una ripresa discutibile. Heidegger tira in ballo il modo antico di distinguere l'uomo dall'animale attribuendo solo al primo la ragione. Der Mensch [...] ist das vernünftige Lebewesen. Ma è necessario esporsi in questo modo a critiche?

(7) “L'uomo deve essere in grado di pensare se solo lo vuole. Tuttavia, può darsi che l'uomo voglia pensare, ma non ne sia in grado.” Indes will der Mensch vielleicht denken und kann es nicht. Questo indes quindi significherebbe “tuttavia”? Sì. È un sinonimo piuttosto ricercato di allerdings3. Di regola non introduce una frase4. Si distinguono tuttavia due accezioni di indes(en): questo avverbio può aver significato temporale o avversativo – quest'ultimo tuttavia il dizionario dei Grimm5 lo dà come “verblasst”: “sbiadito”. E se Heidegger avesse scelto appositamente questo indes del doppio senso? “Nel mentre / per ora / tuttavia l'uomo vuole forse pensare e non può.” Tra l'altro, tranne “indes”, le parole della frase sono tanto elementari da far sembrare già troppo elegante la resa con “può darsi che”. Tale elementarismo avvicina lo stile d Heidegger a tratti a quello di Robert Walser, ma questo è un altro tema.

Tre volte Heidegger sceglie delle parole inconsuete: gelangen in, vermögen, indes. Forse ogni volta ha dei motivi per farlo? Ciò che si palesa in ogni caso è una certa ricercatezza nel lessico.

Sarebbe un pregio per un pensatore utilizzare parole raffinate e non molto comuni? Oppure un motivo di rimprovero? Sicuro è che con una tale tendenza un filosofo di lingua tedesca si allontana da una tradizione che da Hegel a Nietzsche predilige un lessico quotidiano. “Dolce inganno!” si obietterà, perché la dialettica della coscienza in realtà non si apre a tutti, sebbene parli del “qui” e dell'”ora”. Tuttavia, l'idea che la parola filosofica sia almeno in principio rivolta a chiunque abbia voglia di riflettere è molto antica, forse congenita a ciò che chiamiamo filosofia in opposizione alle dottrine segrete di sacerdotesse, mistici e pensatori gnostici – altre persone che hanno seguito dei percorsi molto particolari.




Alcuni accorgimenti di pronuncia potrebbero servire a evitare malintesi.
(1) Le parole tedesche vengono pronunciate con un certo distacco tra di loro. Così, volendo dire “m chiamo”, all'”Ich” prima di “heiße” si faccia seguire un respiro (conviene anche per l'aspirazione “h”); altrimenti ciò che un tedesco comprende è “ich scheiße” (“io cago”).
(2) “Ch” è pronunciata come una “k” soltanto quando seguita da una “s”, cosa rara che troviamo giusto in “wechseln” (”cambiare”) e in poche altre parole. Atrimenti, quando segue le vocali “a”, “o” e “u” (quelle posteriori) è un “ch” gutturale (trascrizione fonetica [x]) che ricorda un drago raffreddato; quando è preceduta da “i”, “e” o “eu” (oi) si fa simile a una fuga di gas (fon.: [ç]). Per un bel passaggio da [ç] a [x] è sufficiente ascoltare la caffettiera quand il liquido sale.
Detto ciò, consiglio di pronunciare il nome “Fichte” nel modo indicato. Il tanto amato “Fikkte” per un ascoltatore di lingua tedesca sembra “fickte”, forma del passato di “ficken”, “scopare” (non per terra).
(3) Nelle lingue germaniche è in genere la prima sillaba della parola a portare un accento principale tanto dominante che le sillabi seguenti sembrano svanire nel nulla. Quindi uno che pronuncia “Schópenhauer” il tedesco forse lo sa e chi dice “Schopenháuér” sicuramente no.


1     Martin Heidegger: Che cosa significa pensare? Trad. di Ugo Ugazio e Gianni Vattimo, Varese (Sugarco Edizioni) 1996. Non intendo criticare i traduttori.
2     È utlizzato 24 volte meno del sinonimo “kommen”. http://wortschatz.uni-leipzig.de/ (10/04/2013)
3    Appartiene alla classe 9 delle parole tedesche; significa che è 2**9 volte più rara della parola più utilizzata in tedesco, ovvero “der”. Allerdings è della classe 6, quidi sarebbe 8 volte più probabile. http://dwb.uni-trier.de/de/ (15/04/2013). Anche il Dizionario tedesco italiano, italiano tedesco, a cura di Luisa Giacoma e Susanne Kolb, Bologna (Zanichelli/ Pons-Klett), 2009 dà come “gehoben” ('elevato') la parola.
4     In nessuno die 31 esempi d'uso forniti da „Wortschatz Universität Leipzig“ „indes“ sta all'inizio di una frase